Mamma mia mi son stufa

Elaborazione di Angelo Mazza

Canto Popolare del 1940
Provenienza: Lombardia



Testo

Mamma mia, mi son stufa
o de fa' la filerina
ol cal el poc a la matina,
ol provin dò voeult al dì.

Mamma mia, mi son stufa
tutt ol dì a fà andà l'aspa,
voglio andare in bergamasca,
in bergamasca a lavorar.

El mestèe de la filanda
l'è el mestèe degli assassini,
poverette quelle figlie
che son dentro a lavorar.

Siam trattate come cani,
come cani alla catena,
non è questa la maniera
'o di farci lavorar.

Tucc me dìsen che sont nera
e l'è el fumm de la caldera,
el mio amor me lo diceva,
di non far quel brutt mestèe.

Tucc me disen che sont gialda
l'è ol filör de la filanda,
quando poi sarò in campagna
i miei color ritorneran.

Descrizione

Intorno al 1860 nascono in Lombardia le prime fabbriche tessili che richiamano dalle campagne la manodopera femminile. Ma la sospirata liberazione dall'ambiente chiuso dei paesi di campagna si rivela una condizione ancora peggiore. Si finisce per desiderare il ritorno alla campagna, di fronte ad uno sfruttamento inimmaginabile. "Cal" e "poc" erano prove di quantità sul filato prodotto. In particolare il "cal" (calo) si verificava quando la quantità di scarto superava i limiti consentiti. Il "poc" (poco) invece quando la filandaia, pur rispettando la proporzione fra filato e scarto, aveva prodotto poco filato. Il "pruvìn" (provino) era una verifica sulla qualità del filato. Dopo un certo numero di esiti positivi del "pruvìn", la filandaia poteva guadagnare la mansione di Maestra o Mistra, con un incremento significativo della paga. "L'aspa" (aspo) è il tipico avvolgitore del filato. Il "filor" è il vapore prodotto dai macchinari di lavorazione del filato che tipicamente assumeva una colorazione giallastra.

- prosegue testo tratto da fonte esterna: Coro Monte Alben di Lodi -
"Canto delle filande, l’albero degli zoccoli potremmo definirlo, è un canto di protesta, un canto violento, un canto crudo, cattivo, dove la denuncia non è fatta a mezzi termini ma "..el mestè de la filanda, l’el mestè degli assassini.. siam trattate come cani, come cani alla catena.." eppure, la capacità musicale di Angelo Mazza riesce a condurre attraverso delle costruzioni che si sovrappongono, a questo momento, attraverso tutto un iter di sofferenza di lavoro, di condizioni di vita impossibili di queste filandere, per questo nel momento in cui c'è l'urlo degli assassini, siamo già preparati ad affrontarlo, poi c'è la rassegnazione che ricade fino alla fine. E' uno dei canti più belli, é uno fra i canti che, assieme a quel genere di canti delle mondine, possono rappresentare un certo momento della nostra storia e della nostra vita. Qui, diventa arte per farci sentire la puzza del baco che si trasforma lentamente in seta attraverso queste caldaie puzzolenti e che ti trasformava addirittura in esseri immondi. Il brano ha momenti di grande intensità emotiva, dove il coro è chiamato a riempire l’estensione tra tenori primi e bassi, cantando a tratti a sette voci. Ma sicuramente non un canto di rassegnazione, ma un canto di speranza, Speranza di una vita migliore. Difficile dare una collocazione geografica a questo brano, tante erano attorno agli anni 1920-1930 le filande in Lombardia in modo particolare in Brianza, che però calza a meraviglia con il lodigiano perché oltre ad avere una marcata vocazione agricola, il tessuto socio economico gravitava, in particolar modo per le lavoratrici, solitamente giovani ragazze, sul “fabricon”, (Lanificio Cremonesi – Varesi & C.) e il “linificio” (Linificio – Canapificio - Nazionale), ragazze che erano scherzosamente chiamate dai giovani del posto “le vunce” per il loro aspetto giallastro e fulliginoso, all’uscita dalle fabbriche, al termine dei turni massacranti di lavoro."